Secondo me se c’ero io in quella cella o c’era un figlio di operaio, magari un Gennaro Baladamente, piuttosto di una Cecilia Sala, figlia di banchiere, che non si è nemmeno laureata ma è diventata una grandissima giornalista così giovane (chissà perché: a noi gente normale chiedono i titoli, a quelli come lei basta l’esperienza sul campo. Loro “Vengono notati”, così per caso), comunque se c’ero io, ritornavo con qualche livido in più, con qualche lacrima in più, con qualche graffio in più. Sono sicuro che se c’ero io, non mi facevano mangiare nemmeno il riso con lenticchie e carne come l’ha mangiato lei, e magari restavo in quella cella qualche giorno in più.
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Quante foto da super bella, femme fatale, un puo’ madonna addolorata, un po’ donna in carriera, tra l’altro tutte usate dai giornali, abbiamo visto nei giorni scorsi girare sui social. Se c’ero io in quella prigione o un Pasqualino Racalmuto da Enna, non avrebbero avuto pietà i giornali a trovare le foto più brutte, i selfie più disgustosi, ridicoli. Le avrebbero trovate apposta, le più schifose, per attirare l’attenzione dei lettori e fare click. I selfie più brutti di Govinda. Li avrebbero messi in prima pagina col titolo “Giuseppe Govinda, imprigionato in Iran, meridionale in pericolo”. Anzi, avrebbero utilizzato, ignorando il mio nome d’arte, il mio vero cognome.
Avrebbero messo in discussione la mia persona, le mie scelte di vita. Un leghista di turno, o un missino, o un invertebrato, di quelli che vediamo sempre alla tv, avrebbero buttato tutto in caciara, con le loro battutine. Dato che sono del sud, avrebbero girato delle video-inchieste con la musichetta simpatica o mafiosa. Sarebbero andati al mio paese a fare le interviste. Avrebbero intervistato persino mia madre in pigiama. Non avrebbero avuto pietà, se c’ero io in quella cella.