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L’ospedale abbandonato

ospedale abbandonato berlino - Foto di Giuseppe Govinda ampliata con l'IA.Ospedale pediatrico abbandonato, Berlino. Foto di Giuseppe Govinda ampliata con l'IA.

Era una bella serata quando io e Natalie andammo al vecchio ospedale pediatrico abbandonato di Berlino. Da soli, dopo le 19 prendiamo due bus e ci dirigiamo verso un località misteriosa di Berlino. Non so perché decidemmo di andarci, il fatto è che noi due, insieme, abbiamo sempre avuto attrazione per i posti pericolosi e anche sporchi.
Il kinderkrankenhaus fu costruito durante l’era prussiana. Facile da raggiungere è una costruzione estremamente pericolante, infatti facemmo molta attenzione a dove mettemmo i piedi. Buche casuali e un tetto che sembrava piuttosto instabile ci ha tenuti fuori da alcune camere.

L’architetto Carl James Bühring ha redatto il complesso edilizio originario nel 1909. Hanno concluso l’edificio principale nel 1911. Il piano era che questo ospedale avrebbe contribuito a gestire il tasso di natalità in aumento in città. A partire dal 1912, altri edifici si aggiunsero diventando il primo ospedale pediatrico comunale in Prussia. Tra il 1912 e il 1920 vi era un’ala in cui erano state posizionate delle mucche, per la produzione di latte di alta qualità per i bambini che avevano bisogno di latte materno, e per quelli un po’ cresciuti indeboliti da qualche malattia e che venivano curati con la “terapia del latte”.
L’ultimo edificio sembra essere il reparto infermieristico aggiunto nel 1987 con due piani e pavimenti semi-moderni in laminato.
L’ospedale è stato chiuso il 1° gennaio 1997 e venduto nel 2006 a un gruppo di investitori. Vorrebbero aprire un centro oncologico, utilizzando quello che possono dei vecchi edifici, e ristrutturando il resto. A oggi però, nessuno ha compiuto progressi, e non è chiaro se saranno in grado di realizzare la struttura.

Il momento più difficile di tutta l’esperienza “survival” vissuta nel visitare l’ospedale abbandonato, è stato per me scavalcare il cancello. Lei tranquilla, io quasi tremavo facendola ridere selvaggiamente.
Subito dopo attraversato il cortile pieno di sterpaglie e di alberi, ci ritroviamo all’entrata. Mura vecchie e rovinate ci circondano. Abbiamo tre strade da prendere, a sinistra, dritto per un corridoio buio e a destra. Decidiamo di andare a sinistra. Lei mi dà la mano, io non vedo e ci facciamo luce con il cellulare. In fondo troviamo le scale per il primo piano. Che figata!
Arriviamo al piano superiore in cui ci sono le rovine del tetto distrutto. Legna bruciata e spezzata. Per un attimo abbiamo paura di continuare la nostra visita, però riesco a trasmettere a Natalie il mio coraggio, dicendole: “vedi, il pavimento sembra fragile ma è solo un’impressione… è ricoperto dalle travi di legno che sono morbide forse perché umide… Dai andiamo!”. Mi vengono in mente i momenti della mia vita in cui credevo di non farcela e poi, grazie a me stesso o alle persone che mi volevano bene, riuscivo a trovare la forza per andare avanti.
Sul muro in alto leggiamo una scritta gigante, che fa I love this.

Entriamo in un altro lungo corridoio e ci imbuchiamo nelle polverose stanze laterali, dove in una di queste c’è una piccola scala a chiocciola di legno che porta a una soffitta. Adesso sono io ad aver paura. Le chiedo di darmi la mano. La scala trema leggermente. Vado avanti, e troviamo proprio di fronte a noi un graffito di una ragazza che messo in quella posizione ci fa ghiacciare il sangue dalla paura.
Arrivati su, siamo più vicini alla scritta I love this. È proprio lì, dietro Natalie. Questo lo trovo interessante. È come se quel graffito fatto senza tanta parsimonia, avesse acquisito un senso più esplicito, come se fosse stato scritto per noi. Notiamo una bottiglia di birra, “forse qualcuno è stato qui prima”.

Scendiamo e proseguiamo per il corridoio. Arriviamo nella seconda parte della costruzione. Stanze sempre più sporche, graffiti inquietanti ovunque, uno in particolare colpisce Natalie, che vede prima di me: una bambina con un coltello.
“Oh cavolo, guarda per terra c’è un’orma di scarpe, scappiamo! Sembra fresca, qualcuno è qui”, le dico. Ma Natalie mi fa notare che anche questo è stato disegnato con dei colori. “Uhh bene”.
Ci dirigiamo verso la ragazza col coltello, e andiamo nelle stanze alla sua sinistra che danno sulla strada da cui siamo venuti. Mentre Natalie fa qualche foto qua e là, mi fermo per un momento e respiro, mi sento molto bene. La guardo ed è così radiosa immersa in quell’oscurità. Facciamo un selfie vicino alla finestra e qualche altro scatto all’ambiente.
Usciti dalla stanza andiamo verso il corridoio lunghissimo e pieno di crepe. Morti dal ridere, come travolti da un’energia cosmica infinita pensiamo che è tempo di lasciare la struttura. Sorridendo Natalie mi dice che vuole andare via, ha paura. L’abbraccio, e le dico che questa situazione mi fa eccitare. Ma il sole è calato ed è sempre più buio. La nostra dose di adrenalina è abbastanza per oggi.
Penso alla prima puntata di American Horror Story Asylum quando i due innamorati iniziano a limonare in una casa abbandonata, facendo però un brutto incontro. Che risate!

Allora via, tutto il tragitto di ritorno mano nella mano, nell’oscurità di un vecchio ospedale abbandonato. La canzone di Ed Harcourt intitolata Here Be Monsters sarebbe una buona colonna sonora.

All’entrata prima di uscire, dove ci sono le tre direzioni, accade un fatto paranormale. Natalie decide di dare un’occhiata sul lato che non avevamo visitato, e due secondi dopo, tutta spaventata, corre via dicendomi di aver visto una figura umana senza volto! “È slender man il mostro che rapisce i bambini!”. Lei slender man non lo conosce, e quando a casa le farò vedere le foto mi dirà che è proprio l’uomo che ha visto.

Lasciamo l’ospedale. Arriva di nuovo il momento più terrificante per me, scavalcare il cancello.
Facciamo in modo che nessuno ci vede e andiamo alla fermata del bus.

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